Fatto!

E così ieri -quattro giorni in tutto- hanno gettato il ponticello. Tra lunedì e ieri pomeriggio hanno eseguito i lavori, un’opera mica da poco tra demolizioni, fondazioni, muri, solaio… mentre non è bastato quasi un anno per sistemare le carte (e non lo sono tutt’ora). Se questa è l’Italia che la mia generazione ha formato significa solamente una cosa: fallimento!

Io e Roger

E’ stato il concerto della riconciliazione. Anche stavolta è accaduto il prodigio: andato a Milano (Palasposrt Assago) con poche aspettative, ne sono uscito emozionato, ammirato, perfino commosso. Rispetto al concerto di Zagabria, dove trovai un Roger Waters supponente, presuntuoso e anche petulante, stavolta io e Manu ci siamo goduti una performance formidabile. D’altronde sono passati oltre cinque anni. E se persistono queste sue manie di raccontare la modernità accusando a destra e a manca, nondimeno ora emerge una umile senilità (lo vedevi che alla fine era stanco e le sue movenze erano quelle di un anziano) che te lo fa amare pensando che, forse, è l’ultima volta che lo vedi (e lo senti).

Il sottotitolo del concerto, a questo proposito, mi pare indicativo oltre che ironico: “First farewell tour”. Alle volte pare che, più che il musicista, sul palco ci siano le sue idee, ma come sa esprimerle! Lo fa con una musica sensazionale: la band è favolosa e nel palasport si sente benissimo, meglio di quanto mi aspettassi -direi perfettamente- ma questo credo sia anche merito della gran qualità dei musicisti che lo accompagnano magistralmente. Prima d’ora non ho mai ascoltato Money suonata (e cantata) così meravigliosamente e Us and Them è stata trascinante, travolgente, irresistibile. Cinque anni fa avevi spesso la sensazione che Waters fosse lì per fare in compitino, l’altra sera avevamo sul palco un grande artista perfettamente ispirato e coinvolgente.

Se tutto il concerto è stato sottolineato, come al solito, dalle esternazioni dell’ex leader dei Pink Floyd, stavolta queste sono rimaste quasi sempre confinate al megaschermo a croce che sovrastava il palco e, spesso, mi sono limitato a non leggerle anche se è difficile riuscirci, talmente sono spettacolari le scene e le immagini che le accompagnano.

Dal punto di vista musicale mi limito a rilevare che, rispetto a Zagabria, in questo “This is not a drill” le vocalist si sono limitate ad accompagnare con discrezione mentre, spesso, ha dato corda al sassofono oltre il normale, d’altronde suonava così bene che non dispiacevano queste sovrabbondanze. Non mi dilungo in critiche musicali e nemmeno in un elenco di pezzi ascoltati, spesso riarrangiati da stentare a riconoscerli (Confortably numb), chissà quante se ne trovano su internet. Espongo a caldo i miei pensieri e le emozioni che mi hanno accompagnato: era una sensazione spiacevole quella rimasta dopo il precedente concerto vissuto malamente a causa di quel suo continuo insultare, oltraggiare, accusare… è bello invece aver fatto pace con Rogers Waters e ricordarlo, mi ripeto, con brividi di commozione.

Guai in vista.

Sviluppi clamorosi sul caso del ponticello per il nuovo accesso carraio: il proprietario, visto che dal Comune non si riesce ad ottenere risposta e che fra pochi giorni il Consorzio aprirà il canale al termine del periodo di asciutta, ha deciso di partire coi lavori anche senza le autorizzazioni. Detto fatto: in un giorno ha già effettuato le demolizioni e gettato le fondazioni. Mah!

Waters

Domani io e Manu andremo a Milano per il concerto di Roger Waters. E’ la prima volta che vado a un concerto di un ex Pink Floyd senza molto entusiasmo. Nell’ultima occasione, infatti, sono rimasto un po’ deluso. Eravamo a Zagabria e le sue continue esternazioni politiche (a senso unico) mi infastidirono oltre misura. Però è già accaduto in passato che, quando sono andato a un qualche concerto senza molte aspettative, sia invece riuscito benissimo e così speriamo accada anche stavolta.

Purtroppo invecchiando si diventa sempre più cocciuti e l’ottantenne Roger Waters testardo e bizzoso lo è stato fin da giovane.

A proposito di Waters: nel ‘70, in procinto di pubblicare il nuovo album, i Pink Floyd vennero invitati a suonare alla BBC. Mentre aspettavano di dare il via al concerto uno dei dirigenti chiese come si chiamasse il pezzo che intendevano suonare, una lunga suite quasi interamente strumentale, ma loro risposero che non erano ancora sicuri e proposero un paio di idee giudicate piuttosto banali dai dirigenti della BBC.

A Waters fu passato un giornale come per cercarvi qualche idea e infatti la trovò. Fu colpito da un titolo: Atom Heart Mother, articolo su una donna incinta a cui era stato impiantato un pacemaker sperimentale: perfetto!

Alme Bucìn

E’ un periodo di celebrazioni: oggi ricorrono dieci anni dalla scomparsa di Alme Bucìn, una persona che mi è stata particolarmente cara e credo così sia stato per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerla.

Nella sua osteria di Blessano mi portò per la prima volta mio zio Rino (classe 1920) che reclamava anche un passato interesse sentimentale per Alme, peraltro mai corrisposto. Almeno così lei rispondeva. Era l’estate del ‘76, poco dopo il terremoto e l’ambiente, pur fuori dagli schemi di un ragazzo di allora tutto teso alla modernità, mi piaceva assai. Lei poi era un fenomeno. Ricordava tutto e aveva sempre pronte citazioni e detti mai banali, e il suo fare era sempre garbato, cordiale, accogliente.

Ma la vera scoperta avvenne nell’inverno successivo quando, con fare arrogante e impudente, la canzonai per quel suo misero fuochetto che si ostinava a coltivare sul vecchio fogolâr. Lei sorrise e, tutta presa dai suoi doveri di ostessa, passò oltre senza rispondermi stimolando in tal modo la mia presunzione. Bevvi un chinotto, e risalii sulla Bianchina, andai a casa, presi un grosso ceppo di Gelso e tornai a Blessano. Tutto preso dalla mia boria lo portai in osteria e, senza chiedere ad Alme, lo sistemai sul fogolâr con spavalderia tipica giovanile mentre gli altri avventori osservavano l’avvenimento tra il curioso e lo stupito.

Non l’avessi mai fatto: la cortese vecchina si trasformò in una tigre! Raccolse il grosso ceppo con insospettata agilità, e, imprecando coloritamente, uscì dall’osteria e lo scaraventò ancora fumante nel bagagliaio della Bianchina il cui portellone era rimasto aperto. Poi, piccolina com’era, mi prese con forza per il bavero e, con fare risoluto, mi impartì una lezione che non ho mai scordato a proposito del rispetto e dell’educazione dovuta al il prossimo, specie quando si è in casa d’altri.

Purtroppo il fogolâr ha sempre avuto problemi di “tiraggio” e il fuoco doveva forzatamente essere contenuto utilizzando solo – poca – legna ben secca. D’accordo che questo io non lo sapevo, ma il mio comportamento fu comunque deplorevole e irrispettoso; lei me lo fece ben capire, eccome se lo fece!

Da allora, dopo essermi ben scusato, ho frequentato assiduamente quello strano ambiente, specialmente nei momenti di sconforto o quando non riuscivo a concentrarmi per risolvere problemi di lavoro. Seduto coi piedi sul fogolâr, accesso o spento che fosse, e con uno spritz accanto, riuscivo a ritrovare la serenità necessaria per ripartire. In seguito, quando presi a viaggiare in moto, mai accadeva che, prima di rincasare, non mi fermassi un momento da Alme per l’ultimo bicchiere e ascoltare compiaciuto il suo consueto: “ Di ce part di mont ventu chiste volte?”

Il più grande

Oggi 21 marzo, oltre a fare gli auguri a mia figlia, caspita: già quasi 40; ci sarebbe da riproporre la famosa canzone dei Dik Dik scritta da Lavezzi (musica) e Mogol (testi) nel ’69, così come facevo alla radio tanti anni fa. A proposito: Ho letto che Mogol e Lavezzi si sono riuniti per un nuovo disco; ho grande ammirazione per i due ma è una ennesima conferma della pochezza della nostra musica attuale dato che anche Vasco e Zucchero sono fermi da un po’.

Bene, musica, musicisti e figli a parte, oggi voglio invece ricordare Pietro Mennea a dieci anni dalla scomparsa: uno sportivo e un uomo che ho ammirato tantissimo e che, per l’epoca moderna, rimane l’atleta più rappresentativo dello sport italiano non tanto per i risultati, pur notevoli, quanto per come li ha raggiunti e per il suo modo di essere uomo e atleta. Un esempio.

Auguri a tutti i papà

Quanto a me speriamo almeno in un dopobarba… se qualcuno si ricorda. Oggi ci sarebbe da andare a Blessano per la fiera “dai ucei”, ma ancora non me la sento di uscire, peccato: è proprio une bella fiera come una volta e, oltre ai molti volatili, ci sono innumerevoli animali da cortile e anche tanto altro.

A proposito di De André, mi si perdoni l’insistenza, c’è una simpatica storiella che mi torna in mente e che rimanda agli inizi della sua collaborazione con Massimo Bubola. Il loro produttore, d’accordo con Fabrizio, chiese a Bubola di tradurre una canzone di Bruce Springsteen, giovane songwriter americano che stava allora sfondando a livello internazionale, per farne una versione italiana in vista del nuovo album. Bubola ci si mise d’impegno ma non ne cavò molto. De André insisteva e non voleva arrendersi, ma Bubola gli rispose che proprio lui, pigro com’era e con la pancetta, voleva cantare Born to run! “ Come potresti essere credibile, cantando che sei nato per correre?”

Fabrizio, a questo punto, dovette arrendersi e allora, cambiando anche autore, si optò per Romance in Durango (dall’album “Desire” di Bob Dylan).

I due (De André e Bubola) non si limitarono a tradurre pedissequamente, ma variarono sia sulla musica (rallentando il ritmo) che sui testi: “Nun chiagne Maddalena…” non proviene certamente dall’americano. Pare che Dylan apprezzò molto la loro versione e non capitava spesso con le innumerevoli cover dei suoi pezzi. A me piaceva da pazzi e, finalmente passata la sbornia “disco”, alla nostra Radio si cominciava a sentire anche De André.

Milano Sanremo

Oggi è il giorno della Milano-Sanremo. Una volta aspettavo questo giorno con ansia e trepidazione impaziente di sentire la voce di De Zan alla TV. Quando andava bene si potevano vedere a malapena gli ultimi chilometri e, se il meteo era incerto, a volte nemmeno quelli. Allora dovevi lavora di fantasia e immaginazione; a me non dispiaceva.

Per un paio d’anni, quei maledetti della RAI, la trasmisero addirittura in differita e io che ci morivo nell’attesa. L’indomani, invece, le cronache sui giornali sportivi erano fluviali, a volte bellissime e dense di aneddoti visti solo dai suiveurs (magari anche solo sognati) e me le bevevo tutte con voluttà imparando a memoria l’ordine d’arrivo… primo De Vlaeminck, secondo Saronni, e poi Kundsen, Moser, Kelly…

Come sono cambiate le cose: su un sito specialistico ho letto che oggi il collegamento in diretta TV comincia addirittura prima della partenza e ci dedicheranno un canale per l’intera corsa: sette ore! E io, invece, farò dell’altro, scrivere, ad esempio. Ma che ci sia qualcuno che rimane davanti allo schermo tutto il tempo? Mi pare impossibile. Ma forse un ragazzino coi capelli rossi aspirante ciclista che bigia la scuola…